Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 1653) è stata una pittrice italiana di scuola caravaggesca.
Vissuta durante la prima metà del XVII secolo, riprese dal padre Orazio il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione drammatica ripresa dalle opere del Caravaggio, caricata di effetti teatrali; stilema che contribuì alla diffusione del caravaggismo a Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630.
Nacque a Roma l'8 luglio 1593, primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi, esponente di primo piano del caravaggismo romano, e di Prudenzia Montone, che morì prematuramente. Presso la bottega paterna, assieme ai fratelli, ma dimostrando rispetto ad essi maggiore talento, Artemisia ebbe il suo apprendistato artistico, imparando il disegno, il modo di impastare i colori e di dar lucentezza ai dipinti, (come sappiamo dalla testimonianza di un apprendista di Orazio, Niccolò Bedino, che al processo per lo stupro di Artemisia testimoniò che la ragazza aveva dimostrato queste abilità già nel 1609, pur non dipingendo ancora, ma limitandosi a disegnare bozze per la Sala del Concistoro nel Palazzo del Quirinale). Dal processo emerse anche che i primi esercizi di pittura della giovane ebbero per soggetto l'amica Tuzia e il figlio. Tuzia, vicina di casa dei Gentileschi, aveva cominciato la loro frequentazione agli inizi del 1611; il pittore un giorno l'aveva trovata in casa propria a intrattenere la figlia e, compiaciuto di questa compagnia femminile, l'aveva invitata con la sua famiglia ad abitare insieme, al secondo piano della sua casa in via della Croce. Da quel momento Tuzia divenne inquilina di Gentileschi e compagna di Artemisia. Artemisia mostrò quindi ben presto un talento precoce, che venne nutrito dallo stimolante ambiente romano e dal fermento artistico che gravitava intorno alla sua casa, frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre (Artemisia fu battezzata da un altro pittore, Pietro Rinaldi, e così i suoi fratelli da altre personalità artistiche di spicco del tempo). A Roma vi era un concentramento di relazioni tra artisti: Artemisia crebbe in un quartiere popolato da pittori e artigiani e il suo ambiente naturale era legato all’arte: tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, Guido Reni e Domenichino gestivano il cantiere a S.Gregorio Magno, i Carracci terminavano gli affreschi della Galleria Farnese[5]. Poiché lo stile del padre, in quegli anni, si riferiva esplicitamente all'arte del Caravaggio (con cui Orazio ebbe rapporti di familiarità), anche gli esordi artistici di Artemisia si collocano, per molti versi, sulla scia del pittore lombardo. Probabilmente Artemisia conobbe personalmente Caravaggio, che usava prendere in prestito strumenti dalla bottega di Orazio (tanto che Orazio fu coinvolto nelle accuse di diffamazione fatte a Caravaggio dal pittore Giovanni Baglione. L'influenza del Merisi venne mitigata dall'altrettanto forte influenza del padre: l'apprendistato presso Orazio rappresentò per Artemisia, pittrice donna, l'unico modo per esercitare l'arte, essendole precluse le scuole di formazione: alle donne veniva negato l'accesso alla sfera del lavoro e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale. Una donna non poteva realizzarsi puramente come lavoratrice, ma doveva perlomeno sostenersi col proprio status familiare; il lavoro femminile non era riconosciuto alla luce del sole, ma si realizzava perlopiù "clandestinamente", come dimostrano i registri delle tasse e i censimenti. La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia (sia pur sospettando aiuti da parte del padre, determinato a far conoscere le sue precoci doti artistiche) è la Susanna e i vecchioni (1610), oggi nella collezione Schönborn a Pommersfelden. La tela lascia intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci.
A Firenze Artemisia conobbe un lusinghiero successo. Nel 1616 venne accettata nell'Accademia delle Arti del Disegno, prima donna a godere di tale privilegio; dimostrò di saper tenere buoni rapporti con i più reputati artisti del tempo, come Cristofano Allori, e di saper conquistare i favori e la protezione di persone influenti, a cominciare dal Granduca Cosimo II de' Medici e, in special modo, della granduchessa-madre Cristina, più per i propri meriti che per le preghiere di Orazio: addirittura l'ambasciatore fiorentino a Roma dissuade Cosimo II dall'invitare Orazio, descrivendolo poco capace e bizzarro. Questi primi anni successivi allo stupro e al processo sembrano cercare un distacco dalla vita romana: inizialmente la pittrice assunse il cognome Lomi (che poi era quello originale di Orazio, che però aveva voluto distinguersi dal fratello Aurelio – anch’egli pittore – assumendo il cognome materno) e non tenne contatti con il padre. Artemisia fu in buoni rapporti con Galileo Galilei (giunto a Firenze nel settembre 1610 su invito di Cosimo II[20]), con il quale rimase in contatto epistolare anche in seguito al suo periodo fiorentino. Tra i suoi estimatori ebbe un posto di speciale rilievo Michelangelo Buonarroti il giovane (nipote di Michelangelo): impegnato a costruire una magione che celebrasse la memoria dell'illustre antenato, affidò ad Artemisia l'esecuzione di una tela destinata a decorare il soffitto della galleria dei dipinti. L'amicizia con quest'ultimo è testimoniata da numerose lettere della pittrice, che a Firenze doveva aver imparato a scrivere (se ne era dichiarata incapace in una testimonianza al processo)[22] La tela in questione rappresenta una Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento naturale), raffigurata in forma di giovane donna ignuda che tiene in mano una bussola. Si ritiene che l'avvenente figura femminile abbia le fattezze della stessa Artemisia, che – come ci dicono le informazioni mondane dell'epoca – fu donna di straordinaria avvenenza. In effetti capita spesso, nelle tele di Artemisia, che le sembianze delle formose ed energiche eroine che vi compaiono abbiano fattezze del volto che ritroviamo nei suoi ritratti o autoritratti: spesso chi commissionava le sue tele doveva desiderare di avere una immagine che ricordasse visivamente l'autrice, la cui fama andava crescendo. Il successo, unito al fascino che emanava dalla sua figura, alimentarono, per tutta la sua vita, motteggi e illazioni sulla sua vita privata. Appartengono al periodo fiorentino la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella di Palazzo Pitti e una seconda (dopo quella di Napoli dipinta 8 anni prima) versione della Giuditta che decapita Oloferne agli Uffizi. Nonostante il successo, a causa di spese eccessive, sue e di suo marito, il periodo fiorentino fu tormentato da problemi con i creditori. Si può ragionevolmente collegare al desiderio di sfuggire all'assillo dei debiti e alla non facile convivenza con lo Stiattesi, il suo ritorno a Roma che si realizzò in maniera definitiva nel 1621.
L'anno di arrivo di Artemisia a Roma coincide con quello della partenza del padre Orazio per Genova. Si è ipotizzato, su basi congetturali[26], che Artemisia abbia seguito il padre nella capitale ligure (anche per spiegare il perdurare di una affinità di stile che, ancor oggi, rende problematica l'attribuzione di taluni quadri all'uno o all'altra); ma non si hanno sufficienti prove al riguardo. Artemisia si stabilì a Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di crescere le figlie. Oltre a Prudenzia (nata dal matrimonio con Pierantonio Stiattesi), ebbe una figlia naturale, nata probabilmente nel 1627. Artemisia cercò, con scarso successo, di avviare entrambe le figlie alla pittura. La Roma di quegli anni vedeva ancora una nutrita presenza di pittori caravaggeschi (evidenti assonanze esistono, ad esempio, tra lo stile della Gentileschi e quello di Simon Vouet), ma vedeva anche, durante il pontificato di Urbano VIII, il crescente successo del classicismo della scuola bolognese o delle avventure barocche di Pietro da Cortona[27]. Artemisia dimostrò di avere la giusta sensibilità per cogliere le novità artistiche e la giusta determinazione per vivere da protagonista questa straordinaria stagione artistica di Roma, meta obbligata di artisti di tutta Europa. Artemisia entrò a far parte dell'Accademia dei Desiosi. Fu, in tale circostanza celebrata, con un ritratto inciso che, nella dedica, la qualifica come "Pincturae miraculum invidendum facilius quam imitandum". Di questo periodo è anche l'amicizia con Cassiano dal Pozzo, umanista, collezionista e grande mentore delle belle arti. Tuttavia, nonostante la reputazione artistica, la forte personalità e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu così ricco di commesse come avrebbe desiderato. L'apprezzamento della sua pittura era forse circoscritto alla sua capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche: erano a lei precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare. Difficile, per l'assenza di fonti documentali, è seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo che tra il 1627 e il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono le qualità di pittrice. Con l'avvertenza che la datazione delle opere di Artemisia è spesso terreno di contrasto tra i critici d'arte, sono verosimilmente da assegnare a questo periodo, il Ritratto di gonfaloniere, oggi a Bologna (unico esempio sinora noto di quella abilità di ritrattista per la quale Artemisia pure andava celebre); la Giuditta con la sua ancella oggi al Detroit Institute of Arts (che riflette la capacità della pittrice di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela, per i quali andavano famosi a Roma artisti come Gerrit van Honthorst, Trophime Bigot, e altri); la Venere dormiente oggi a Princeton; la Ester e Assuero del Metropolitan Museum of Art di New York (che testimonia la capacità di Artemisia di assimilare le lezioni luministiche veneziane).
Nel 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro. Va ricordato che, tra gli altri, erano già passati da Napoli Caravaggio, Annibale Carracci, Simon Vouet; vi lavoravano in quegli anni José de Ribera, Massimo Stanzione, e, di lì a poco, vi sarebbero approdati il Domenichino, Giovanni Lanfranco e altri ancora[28]. Poco più tardi il trasferimento nella metropoli partenopea fu definitivo e lì l'artista sarebbe rimasta - salvo la parentesi inglese e trasferimenti temporanei - per il resto della sua vita. Napoli (pur con qualche costante rimpianto per Roma) fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria nella quale curò la propria famiglia (a Napoli maritò infatti, con appropriata dote, le sue due figlie), ricevette attestati di grande stima, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d'Alcalá, ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti (a cominciare da Massimo Stanzione, per il quale si deve parlare di una intensa collaborazione artistica, fondata su una viva amicizia e su evidenti consonanze stilistiche). A Napoli, per la prima volta, Artemisia si trovò a dipingere tele per una cattedrale, quelle dedicate alla Vita di San Gennaro a Pozzuoli. Sono del primo periodo napoletano opere quali la Nascita di San Giovanni Battista al Prado, Corisca e il satiro in collezione privata. In queste opere Artemisia dimostra, ancora una volta, di sapersi aggiornare sui gusti artistici del tempo e di sapersi cimentare con altri soggetti rispetto alle varie Giuditte, Susanne, Betsabee, Maddalene penitenti. Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore di corte e aveva ricevuto l'incarico della decorazione di un soffitto (allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti) nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria a Greenwich. Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica, ma nulla lascia pensare che il motivo del viaggio londinese fosse solo quello di venire in soccorso all'anziano genitore. Certo è che Carlo I la reclamava alla sua corte e un rifiuto non era possibile. Orazio inaspettatamente morì, assistito dalla figlia, nel 1639. Carlo I era un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia doveva averlo incuriosito, e non è un caso che nella sua collezione fosse presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l'Autoritratto in veste di Pittura. Artemisia ebbe dunque a Londra una sua attività autonoma, che continuò per un po' di tempo anche dopo la morte del padre, anche se non sono note opere attribuibili con certezza a questo periodo. Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l'Inghilterra. Poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. È un fatto che nel 1649 fosse nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia che fu suo mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano. L'ultima lettera al suo mentore che noi conosciamo è del 1650 e testimonia come l'artista fosse ancora in piena attività. Artemisia morì nel 1653. Esempi di opere ascrivibili a questo secondo periodo napoletano sono una Susanna e i vecchioni oggi a Brno e una Madonna e Bambino con rosario conservata all'El Escorial.
Per una donna all'inizio del XVII secolo dedicarsi alla pittura, come fece Artemisia, rappresentava una scelta non comune e difficile, ma non eccezionale. Prima di Artemisia, tra la fine del 500 e l'inizio del 600, altre donne pittrici esercitarono, anche con buon successo, la loro attività. Possono essere menzionate Sofonisba Anguissola (Cremona ca. 1530 - Palermo ca. 1625) che fu chiamata in Spagna da Filippo II; Lavinia Fontana (Bologna, 1552- Roma, 1614) che si recò a Roma su invito di papa Clemente VIII, Fede Galizia (Milano o Trento, 1578 – Milano 1630) che dipinse, tra l'altro, magnifiche nature morte e una bella Giuditta con la testa di Oloferne. Altre pittrici, più o meno note, intrapresero la loro carriera quando Artemisia era in vita. Se si valutano i loro meriti artistici, il giudizio liquidatorio di Longhi a favore di Artemisia come «l'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura...» appare alquanto ingeneroso[30]. Tuttavia c'è, sia nell'arte sia nella biografia di Artemisia Gentileschi, qualcosa che la rende specialmente affascinante e che spiega l'interesse di alcuni scrittori (anzi, e non a caso, di alcune scrittrici) nei suoi confronti. La prima scrittrice che decise di costruire un romanzo attorno alla figura di Artemisia, fu Anna Banti, la moglie di Roberto Longhi. La sua prima stesura del testo, in forma manoscritta era avvenuta nel 1944, ma fu perduta nel corso delle vicende belliche. La decisione di ritornare sul libro, intitolato Artemisia, scrivendolo in forma assai diversa, avvenne tre anni dopo. Anna Banti si pone nel suo nuovo romanzo in dialogo con la pittrice, in forma di "diario aperto", in cui cerca – in parallelo al racconto dell'adolescenza e della maturità di Artemisia – di spiegare a se stessa il fascino che ne subisce, e il bisogno che avverte di andare al di là - in un dialogo da donna a donna - delle limpide (seppur appassionate) valutazioni artistiche di cui avrà tante volte discusso con Roberto Longhi[31]. Più di cinquant'anni dopo, nel 1999, la scrittrice francese Alexandra Lapierre affronta, ancora con un romanzo, il fascino enigmatico della vita di Artemisia, e lo fa a partire da uno studio scrupoloso della biografia e del contesto storico che le fa da sfondo. L'indagine psicologica che passa tra le righe del romanzo, per comprendere il rapporto tra Artemisia donna e Artemisia pittrice, finisce per chiamare in causa, come leitmotiv, quello della relazione - fatta di un affetto che stenta a esprimersi e da una latente rivalità professionale - tra padre e figlia. Ancora un altro romanzo, pubblicato più di recente anche in Italia, quello di Susan Vreeland (The Passion of Artemisa), si pone nella scia della popolarità assunta da Artemisia Gentileschi nell'ambito della lettura data, in chiave femminista, alla sua figura, e sembra voler sfruttare il recente successo dei romanzi storici che prendono le mossa da un'opera d'arte e dal suo autore. Incerti, per analoghe ragioni, sono i risultati ai quali, secondo la critica, giunge la regista francese Agnes Merlet, con il film Artemisia. Passione estrema.
Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 1653) è stata una pittrice italiana di scuola caravaggesca.
RispondiEliminaVissuta durante la prima metà del XVII secolo, riprese dal padre Orazio il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione drammatica ripresa dalle opere del Caravaggio, caricata di effetti teatrali; stilema che contribuì alla diffusione del caravaggismo a Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630.
Nacque a Roma l'8 luglio 1593, primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi, esponente di primo piano del caravaggismo romano, e di Prudenzia Montone, che morì prematuramente. Presso la bottega paterna, assieme ai fratelli, ma dimostrando rispetto ad essi maggiore talento, Artemisia ebbe il suo apprendistato artistico, imparando il disegno, il modo di impastare i colori e di dar lucentezza ai dipinti, (come sappiamo dalla testimonianza di un apprendista di Orazio, Niccolò Bedino, che al processo per lo stupro di Artemisia testimoniò che la ragazza aveva dimostrato queste abilità già nel 1609, pur non dipingendo ancora, ma limitandosi a disegnare bozze per la Sala del Concistoro nel Palazzo del Quirinale). Dal processo emerse anche che i primi esercizi di pittura della giovane ebbero per soggetto l'amica Tuzia e il figlio. Tuzia, vicina di casa dei Gentileschi, aveva cominciato la loro frequentazione agli inizi del 1611; il pittore un giorno l'aveva trovata in casa propria a intrattenere la figlia e, compiaciuto di questa compagnia femminile, l'aveva invitata con la sua famiglia ad abitare insieme, al secondo piano della sua casa in via della Croce. Da quel momento Tuzia divenne inquilina di Gentileschi e compagna di Artemisia.
RispondiEliminaArtemisia mostrò quindi ben presto un talento precoce, che venne nutrito dallo stimolante ambiente romano e dal fermento artistico che gravitava intorno alla sua casa, frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre (Artemisia fu battezzata da un altro pittore, Pietro Rinaldi, e così i suoi fratelli da altre personalità artistiche di spicco del tempo). A Roma vi era un concentramento di relazioni tra artisti: Artemisia crebbe in un quartiere popolato da pittori e artigiani e il suo ambiente naturale era legato all’arte: tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, Guido Reni e Domenichino gestivano il cantiere a S.Gregorio Magno, i Carracci terminavano gli affreschi della Galleria Farnese[5]. Poiché lo stile del padre, in quegli anni, si riferiva esplicitamente all'arte del Caravaggio (con cui Orazio ebbe rapporti di familiarità), anche gli esordi artistici di Artemisia si collocano, per molti versi, sulla scia del pittore lombardo. Probabilmente Artemisia conobbe personalmente Caravaggio, che usava prendere in prestito strumenti dalla bottega di Orazio (tanto che Orazio fu coinvolto nelle accuse di diffamazione fatte a Caravaggio dal pittore Giovanni Baglione.
L'influenza del Merisi venne mitigata dall'altrettanto forte influenza del padre: l'apprendistato presso Orazio rappresentò per Artemisia, pittrice donna, l'unico modo per esercitare l'arte, essendole precluse le scuole di formazione: alle donne veniva negato l'accesso alla sfera del lavoro e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale. Una donna non poteva realizzarsi puramente come lavoratrice, ma doveva perlomeno sostenersi col proprio status familiare; il lavoro femminile non era riconosciuto alla luce del sole, ma si realizzava perlopiù "clandestinamente", come dimostrano i registri delle tasse e i censimenti.
La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia (sia pur sospettando aiuti da parte del padre, determinato a far conoscere le sue precoci doti artistiche) è la Susanna e i vecchioni (1610), oggi nella collezione Schönborn a Pommersfelden. La tela lascia intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci.
A Firenze Artemisia conobbe un lusinghiero successo. Nel 1616 venne accettata nell'Accademia delle Arti del Disegno, prima donna a godere di tale privilegio; dimostrò di saper tenere buoni rapporti con i più reputati artisti del tempo, come Cristofano Allori, e di saper conquistare i favori e la protezione di persone influenti, a cominciare dal Granduca Cosimo II de' Medici e, in special modo, della granduchessa-madre Cristina, più per i propri meriti che per le preghiere di Orazio: addirittura l'ambasciatore fiorentino a Roma dissuade Cosimo II dall'invitare Orazio, descrivendolo poco capace e bizzarro.
RispondiEliminaQuesti primi anni successivi allo stupro e al processo sembrano cercare un distacco dalla vita romana: inizialmente la pittrice assunse il cognome Lomi (che poi era quello originale di Orazio, che però aveva voluto distinguersi dal fratello Aurelio – anch’egli pittore – assumendo il cognome materno) e non tenne contatti con il padre.
Artemisia fu in buoni rapporti con Galileo Galilei (giunto a Firenze nel settembre 1610 su invito di Cosimo II[20]), con il quale rimase in contatto epistolare anche in seguito al suo periodo fiorentino.
Tra i suoi estimatori ebbe un posto di speciale rilievo Michelangelo Buonarroti il giovane (nipote di Michelangelo): impegnato a costruire una magione che celebrasse la memoria dell'illustre antenato, affidò ad Artemisia l'esecuzione di una tela destinata a decorare il soffitto della galleria dei dipinti. L'amicizia con quest'ultimo è testimoniata da numerose lettere della pittrice, che a Firenze doveva aver imparato a scrivere (se ne era dichiarata incapace in una testimonianza al processo)[22]
La tela in questione rappresenta una Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento naturale), raffigurata in forma di giovane donna ignuda che tiene in mano una bussola. Si ritiene che l'avvenente figura femminile abbia le fattezze della stessa Artemisia, che – come ci dicono le informazioni mondane dell'epoca – fu donna di straordinaria avvenenza.
In effetti capita spesso, nelle tele di Artemisia, che le sembianze delle formose ed energiche eroine che vi compaiono abbiano fattezze del volto che ritroviamo nei suoi ritratti o autoritratti: spesso chi commissionava le sue tele doveva desiderare di avere una immagine che ricordasse visivamente l'autrice, la cui fama andava crescendo. Il successo, unito al fascino che emanava dalla sua figura, alimentarono, per tutta la sua vita, motteggi e illazioni sulla sua vita privata.
Appartengono al periodo fiorentino la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella di Palazzo Pitti e una seconda (dopo quella di Napoli dipinta 8 anni prima) versione della Giuditta che decapita Oloferne agli Uffizi.
Nonostante il successo, a causa di spese eccessive, sue e di suo marito, il periodo fiorentino fu tormentato da problemi con i creditori. Si può ragionevolmente collegare al desiderio di sfuggire all'assillo dei debiti e alla non facile convivenza con lo Stiattesi, il suo ritorno a Roma che si realizzò in maniera definitiva nel 1621.
L'anno di arrivo di Artemisia a Roma coincide con quello della partenza del padre Orazio per Genova. Si è ipotizzato, su basi congetturali[26], che Artemisia abbia seguito il padre nella capitale ligure (anche per spiegare il perdurare di una affinità di stile che, ancor oggi, rende problematica l'attribuzione di taluni quadri all'uno o all'altra); ma non si hanno sufficienti prove al riguardo.
RispondiEliminaArtemisia si stabilì a Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di crescere le figlie. Oltre a Prudenzia (nata dal matrimonio con Pierantonio Stiattesi), ebbe una figlia naturale, nata probabilmente nel 1627. Artemisia cercò, con scarso successo, di avviare entrambe le figlie alla pittura.
La Roma di quegli anni vedeva ancora una nutrita presenza di pittori caravaggeschi (evidenti assonanze esistono, ad esempio, tra lo stile della Gentileschi e quello di Simon Vouet), ma vedeva anche, durante il pontificato di Urbano VIII, il crescente successo del classicismo della scuola bolognese o delle avventure barocche di Pietro da Cortona[27].
Artemisia dimostrò di avere la giusta sensibilità per cogliere le novità artistiche e la giusta determinazione per vivere da protagonista questa straordinaria stagione artistica di Roma, meta obbligata di artisti di tutta Europa. Artemisia entrò a far parte dell'Accademia dei Desiosi. Fu, in tale circostanza celebrata, con un ritratto inciso che, nella dedica, la qualifica come "Pincturae miraculum invidendum facilius quam imitandum". Di questo periodo è anche l'amicizia con Cassiano dal Pozzo, umanista, collezionista e grande mentore delle belle arti.
Tuttavia, nonostante la reputazione artistica, la forte personalità e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu così ricco di commesse come avrebbe desiderato. L'apprezzamento della sua pittura era forse circoscritto alla sua capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche: erano a lei precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare. Difficile, per l'assenza di fonti documentali, è seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo che tra il 1627 e il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono le qualità di pittrice.
Con l'avvertenza che la datazione delle opere di Artemisia è spesso terreno di contrasto tra i critici d'arte, sono verosimilmente da assegnare a questo periodo, il Ritratto di gonfaloniere, oggi a Bologna (unico esempio sinora noto di quella abilità di ritrattista per la quale Artemisia pure andava celebre); la Giuditta con la sua ancella oggi al Detroit Institute of Arts (che riflette la capacità della pittrice di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela, per i quali andavano famosi a Roma artisti come Gerrit van Honthorst, Trophime Bigot, e altri); la Venere dormiente oggi a Princeton; la Ester e Assuero del Metropolitan Museum of Art di New York (che testimonia la capacità di Artemisia di assimilare le lezioni luministiche veneziane).
Nel 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro.
RispondiEliminaVa ricordato che, tra gli altri, erano già passati da Napoli Caravaggio, Annibale Carracci, Simon Vouet; vi lavoravano in quegli anni José de Ribera, Massimo Stanzione, e, di lì a poco, vi sarebbero approdati il Domenichino, Giovanni Lanfranco e altri ancora[28].
Poco più tardi il trasferimento nella metropoli partenopea fu definitivo e lì l'artista sarebbe rimasta - salvo la parentesi inglese e trasferimenti temporanei - per il resto della sua vita. Napoli (pur con qualche costante rimpianto per Roma) fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria nella quale curò la propria famiglia (a Napoli maritò infatti, con appropriata dote, le sue due figlie), ricevette attestati di grande stima, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d'Alcalá, ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti (a cominciare da Massimo Stanzione, per il quale si deve parlare di una intensa collaborazione artistica, fondata su una viva amicizia e su evidenti consonanze stilistiche).
A Napoli, per la prima volta, Artemisia si trovò a dipingere tele per una cattedrale, quelle dedicate alla Vita di San Gennaro a Pozzuoli. Sono del primo periodo napoletano opere quali la Nascita di San Giovanni Battista al Prado, Corisca e il satiro in collezione privata. In queste opere Artemisia dimostra, ancora una volta, di sapersi aggiornare sui gusti artistici del tempo e di sapersi cimentare con altri soggetti rispetto alle varie Giuditte, Susanne, Betsabee, Maddalene penitenti.
Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore di corte e aveva ricevuto l'incarico della decorazione di un soffitto (allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti) nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria a Greenwich.
Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica, ma nulla lascia pensare che il motivo del viaggio londinese fosse solo quello di venire in soccorso all'anziano genitore. Certo è che Carlo I la reclamava alla sua corte e un rifiuto non era possibile. Orazio inaspettatamente morì, assistito dalla figlia, nel 1639.
Carlo I era un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia doveva averlo incuriosito, e non è un caso che nella sua collezione fosse presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l'Autoritratto in veste di Pittura.
Artemisia ebbe dunque a Londra una sua attività autonoma, che continuò per un po' di tempo anche dopo la morte del padre, anche se non sono note opere attribuibili con certezza a questo periodo.
Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l'Inghilterra. Poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. È un fatto che nel 1649 fosse nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia che fu suo mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano. L'ultima lettera al suo mentore che noi conosciamo è del 1650 e testimonia come l'artista fosse ancora in piena attività. Artemisia morì nel 1653.
Esempi di opere ascrivibili a questo secondo periodo napoletano sono una Susanna e i vecchioni oggi a Brno e una Madonna e Bambino con rosario conservata all'El Escorial.
Per una donna all'inizio del XVII secolo dedicarsi alla pittura, come fece Artemisia, rappresentava una scelta non comune e difficile, ma non eccezionale. Prima di Artemisia, tra la fine del 500 e l'inizio del 600, altre donne pittrici esercitarono, anche con buon successo, la loro attività. Possono essere menzionate Sofonisba Anguissola (Cremona ca. 1530 - Palermo ca. 1625) che fu chiamata in Spagna da Filippo II; Lavinia Fontana (Bologna, 1552- Roma, 1614) che si recò a Roma su invito di papa Clemente VIII, Fede Galizia (Milano o Trento, 1578 – Milano 1630) che dipinse, tra l'altro, magnifiche nature morte e una bella Giuditta con la testa di Oloferne. Altre pittrici, più o meno note, intrapresero la loro carriera quando Artemisia era in vita.
RispondiEliminaSe si valutano i loro meriti artistici, il giudizio liquidatorio di Longhi a favore di Artemisia come «l'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura...» appare alquanto ingeneroso[30]. Tuttavia c'è, sia nell'arte sia nella biografia di Artemisia Gentileschi, qualcosa che la rende specialmente affascinante e che spiega l'interesse di alcuni scrittori (anzi, e non a caso, di alcune scrittrici) nei suoi confronti.
La prima scrittrice che decise di costruire un romanzo attorno alla figura di Artemisia, fu Anna Banti, la moglie di Roberto Longhi. La sua prima stesura del testo, in forma manoscritta era avvenuta nel 1944, ma fu perduta nel corso delle vicende belliche. La decisione di ritornare sul libro, intitolato Artemisia, scrivendolo in forma assai diversa, avvenne tre anni dopo. Anna Banti si pone nel suo nuovo romanzo in dialogo con la pittrice, in forma di "diario aperto", in cui cerca – in parallelo al racconto dell'adolescenza e della maturità di Artemisia – di spiegare a se stessa il fascino che ne subisce, e il bisogno che avverte di andare al di là - in un dialogo da donna a donna - delle limpide (seppur appassionate) valutazioni artistiche di cui avrà tante volte discusso con Roberto Longhi[31].
Più di cinquant'anni dopo, nel 1999, la scrittrice francese Alexandra Lapierre affronta, ancora con un romanzo, il fascino enigmatico della vita di Artemisia, e lo fa a partire da uno studio scrupoloso della biografia e del contesto storico che le fa da sfondo. L'indagine psicologica che passa tra le righe del romanzo, per comprendere il rapporto tra Artemisia donna e Artemisia pittrice, finisce per chiamare in causa, come leitmotiv, quello della relazione - fatta di un affetto che stenta a esprimersi e da una latente rivalità professionale - tra padre e figlia.
Ancora un altro romanzo, pubblicato più di recente anche in Italia, quello di Susan Vreeland (The Passion of Artemisa), si pone nella scia della popolarità assunta da Artemisia Gentileschi nell'ambito della lettura data, in chiave femminista, alla sua figura, e sembra voler sfruttare il recente successo dei romanzi storici che prendono le mossa da un'opera d'arte e dal suo autore. Incerti, per analoghe ragioni, sono i risultati ai quali, secondo la critica, giunge la regista francese Agnes Merlet, con il film Artemisia. Passione estrema.
Le è stato dedicato l'asteroide 14831 Gentileschi, scoperto nel 1987 da E. W. Elst e un cratere di 20,5 km sul pianeta Venere
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